Costantinopoli.
Senza data [luglio 1850]
Mio caro fratello,
È vero che Le avevo promesso una lettera sulla Grecia, ma questa lettera sarebbe dovuta venire dopo la Sua risposta a quella che gliela preannunciava. È anche vero che avevo preso talmente a noia la Grecia e tutto ciò che conteneva, che non avrei più saputo cosa dirne, se non: va’ a tutti i diavoli! il che non è né molto epistolare, né abbastanza letterario per esserLe indirizzato. Non c’è quasi altro che la luce ad essere degna del paese caro agli dèi olimpii e, in particolare, alla sorella di Apollo. Ho vissuto a lungo sulle nuvole, sugli effetti di luce, sui raggi del sole nascente e calante e altri sweets, ma alla fine, avevo preso in orrore persino queste belle cose. Non un albero, non un filo d’erba, non una goccia d’acqua limpida e abitanti che scimmiottano allo stesso modo l’antico e il moderno, senza avere il buono né dell’una né dell’altra epoca. Delle Miss Calliope che si fanno spedire le mode da Parigi (o anche Marsiglia) e che tengono fortemente a metterLa al corrente; un ministro che non sa né leggere né scrivere, un altro che ruba sulle strade principali: il tutto spolverato da una vanità colossale e nauseabonda. Questa brava gente crede che il destino dell’Europa sia nelle loro mani e sono stati molto fieri del modo in cui si è risolta la disputa con l’Inghilterra (1). Insomma, fa pietà, e la pietà per le persone che non si amano è un sentimento molto sgradevole.
Eccomi dunque nel vero Oriente, anche se oggi mi trovo all’occidente del mio soggiorno di quest’ultimo mese. In breve, ho viaggiato trentanove giorni in Asia e Le dirò in un fiato lo scopo e il risultato del mio viaggio. Lei ha indovinato fino a un certo punto, ma il Suo affetto per me Le fa considerare la verità da un punto di vista che non è quello giusto. Mi applichi pure i versi di Virgilio, ma non pianga e non abbia paura.
L’idea di una colonia mi frulla nel cervello da molto tempo e i Greci l’avevano dapprima accarezzata, promettendomi denaro e terra. Poi sono arrivate le note russe e altre, poi la chiusura delle Camere, poi il blocco e, infine, mi sono stancata di aspettare e me ne andai, o meglio, venni qui, non pensando più granché a questo progetto che mi aveva tanto preoccupata. Trovai qui i ministri americano, piemontese e altri, che mi incoraggiarono a riprenderlo, assicurandomi che aveva grandi possibilità di successo.
Mi ci rimisi dunque, ma non avevo ancora inviato il mio progetto al Gran Visir, che ecco farsi avanti un uomo strano, ma che qui gode di un’immensa influenza e fa più o meno quello che vuole del governo. Quest’uomo comincia col rovesciare tutto il mio piano e le mie idee. «Lei chiede un terreno vicino a Costantinopoli,» mi dice, «Le serve uno in Asia, lontano da qualsiasi sorveglianza ostile o maligna; Lei chiede una concessione, il che implica un possesso temporaneo, e Lei deve acquistare una proprietà che sia bene Suo e di Sua figlia in perpetuo.»
«Acquistare,» risposi, un po’ impazientita, «è presto detto, ma con quali soldi?»
«Le propongo un piccolo regno per $6.000$ piastre turche ($1.200$ franchi), crede di non riuscire a trovarli?»
«Andiamo a vedere il piccolo regno,» risposi; ed eccoci in viaggio per l’Asia. RaccontarLe ciò che ho visto laggiù significherebbe attirarmi l’appellativo di visionaria. Eppure, sono precisa e nulla spiega il completo abbandono di tali tesori, se non il carattere del musulmano e l’assoluta mancanza di popolazione. I miei compatrioti aspettano un mio segnale per venire in gran numero a popolare il mio piccolo regno. La difficoltà è nella scelta e non posso scegliere a distanza. Se mi arrivano dei bambini, delle teste leggere, sempre entusiaste all’inizio e presto disgustate, non farò altro che un fiasco; ma se riesco ad attirare una dozzina di famiglie laboriose e solide, il mio affare è fatto. Non ne ricaverò granché ora, ma Marie si troverà in pochi anni a capo di una magnifica proprietà. Il luogo è molto vicino alla vecchia Cesarea, che oggi non ha più un solo abitante. Anche lì c’era una città, le cui rovine esistono ancora, e ciò appare persino dal nome di Verenegli o città distrutta.
Sono tornata a Stamboul, decisa, e mi assicurano che firmerò il contratto oggi o domani. Ci tornerò poi tra un mese o due e vi riceverò i coloni che verranno a stabilirvisi prima dell’inverno.
Veniamo, ora, al capitolo delle Sue preoccupazioni. No, mio caro fratello, non penso a farmi, qui, una nuova patria. Il mio pensiero è di aprire un asilo ai miei compatrioti laboriosi e di preparare una possibilità di prosperità a Marie. Per me, non ho altra intenzione se non quella di occuparmi utilmente durante il mio esilio. Non creda che io rimanga lontano da Lei perché mi ci trovo bene, né che io ci torni perché mi trovo male altrove.
Lei mi parla di progetti abbandonati, di illusioni distrutte; in buona fede, mio caro fratello, è colpa mia? Ho forse innalzato o potevo prevedere che si innalzasse un muro di sangue tra le mie due patrie? Gliel’ho detto: finché la Francia accetterà il giogo dell’uomo metà idiota e metà infame che ha comandato il misfatto di Roma, finché i Suoi generali e i Suoi ministri si aggireranno impudentemente nelle strade di Parigi, io non metterò piede sul suolo francese. Ma pensa che il mio ritorno sia lontano per questo? Io non lo credo. L’anno $52$ non è lontano ed è, credo, il termine più remoto di un potere che mi ripugna e che io detesto. Non appena sarà stata fatta giustizia, lascerò tutto, fosse anche la mia vera patria, per venire a passare almeno un po’ di tempo accanto a Lei.
Non tema, del resto, le distanze. Non sono più nulla per me. Non farò più storie per imbarcarmi oggi per Marsiglia di quante Lei ne faccia per andare all’Istituto. Non ne dubiti. Non metto radici da nessuna parte e appena potrò vedere la Francia senza un moto di sdegno, sarò vicino a Lei. Le notizie che mi dà della Sua salute mi sono molto penose e Dio solo sa quanto vorrei essere accanto a Lei! Speriamo che la fine del caldo porti un miglioramento.
L’abbraccio fraternamente e teneramente.
(1) Palmerston aveva appena inviato una squadra navale al Pireo per sostenere le rivendicazioni di un ebreo di Gibilterra, suddito inglese, Don Pacifico, la cui casa era stata bruciata dai Greci e che reclamava un formidabile risarcimento. Il governo ellenico riuscì a ottenere una forte riduzione.
(Tradotto dall’originale in francese)