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Cristina a Mignet- 13 Aprile 1848

Milano, 13 Aprile 1848

Mio caro amico,

Le tue due lettere mi sono state inviate da Napoli a Milano, dove mi sono recata con la massima fretta non appena ho ricevuto la notizia della nostra gloriosa rivoluzione. Sì, amico mio, lo sapete ora: la popolazione della Lombardia è stata eroica, e ha compiuto in cinque giorni ciò che si pensava fosse incapace persino di tentare. Ora è il turno di tutta l’Italia di dimostrare che gli insegnamenti degli ultimi trent’anni non sono stati vani per lei, e sta adempiendo magnificamente a questo dovere. Si può dire senza esagerare che tutto il sud della penisola si riversa verso il nord. Forse sapete che circa duecento volontari napoletani hanno voluto seguirmi a Milano e riconoscermi come capo della spedizione. Me la sono cavata abbastanza bene dalla mia delicata missione e ho fatto sì che i capi militari mi supplicassero di non allontanarmi dalla colonna perché solo io potevo mantenere la disciplina tra questi cervelli cosparsi di polvere da sparo. Sfortunatamente ho dovuto consegnarli all’autorità competente al nostro arrivo a Milano e allora l’insubordinazione è iniziata; ho dovuto intervenire ecc. Infine sono partiti per raggiungere l’esercito e ho appena ricevuto ottime notizie del loro ardore e del loro coraggio. Altre colonne di volontari hanno seguito e il Re di Napoli ha fatto partire 10.000 uomini di fanteria e 3000 cavalleria. Le truppe romane comandate dal Generale Durando sono 15.000. È una vera crociata, e l’aspetto di questi uomini così diversi per volto, linguaggio e abbigliamento, ma i cui petti sono generalmente coperti da una grande croce, ha qualcosa di toccante e solenne come la rappresentazione di una scena antica. I giornali vi diranno come sono stata accolta a Milano; dalla barriera fino al Palazzo del Governo ho camminato in mezzo a una folla di persone di tutte le classi, tra diversi corpi di guardie nazionali accompagnati dalle delegazioni della piazza, della Guardia nazionale e del Governo Provvisorio e salutata da continui gridi di gioia. Arrivata al Palazzo del Governo, il popolo mi ha chiamata due volte sul balcone, e quando sono apparsa, l’espressione della sua gioia è stata tale che ho perso completamente il controllo di me stessa e non ho trovato di meglio che mettere la testa tra le mie due mani e piangere come un bambino. Tutti mi esortano a non allontanarmi da qui prima che il nostro destino sia deciso, e credo di dovermi conformare al desiderio generale.

Il nostro primo passo è stato un grande trionfo, ma potremmo ancora incontrare delle sconfitte. Non è, in realtà, l’esercito austriaco che mi spaventa, ma lo spirito del paese. Il partito repubblicano è molto forte in Lombardia. Sai che sono incline a questa forma di governo, che permette comunque agli spiriti superiori di esercitare tutta l’influenza di cui possono impadronirsi. La repubblica non mi fa paura, e non mi ripugna affatto. Ma abbiamo bisogno di unità e forza. Il sud Italia è preoccupato dall’idea di formare una sola nazione e uno stato unico, tanto che se noi diamo l’impulso, la Toscana, Napoli e forse Roma si uniranno a Carlo Alberto. Se invece ci erigiamo in repubblica, ogni città che componeva il Regno Lombardo-Veneto si separerà dal tutto e formerà uno stato proprio. Genova si distaccherà dal Piemonte, e una volta stabilito che l’obiettivo verso cui l’Italia deve tendere è la federazione e che una federazione di venti stati è altrettanto valida di una federazione di dieci, non c’è ragione per cui due città debbano restare unite. Quanto alla possibilità di mantenere unite centinaia di città ognuna con i propri interessi e la propria esistenza separata, è una chimera alla quale né tu né io ci lasceremo ingannare! Capisci, amico mio, quanto una voce influente e amata possa essere utile in questo momento. Rimarrò quindi qui, scriverò, parlerò, non trascurerò nulla per portare il mio paese alla soluzione che desidero con tutto il cuore, alla sua unione con il Piemonte. Se Thierry fosse stato ragionevole, se non avesse avuto un’ostinazione assurda nel rimanere a Parigi a ogni costo, avrei fatto una breve assenza da qui per andarlo a prendere. E veramente, quando leggo i suoi rifiuti ripetuti di venire ad unirsi a me, non posso fare a meno di temere che la sua ragione non abbia sofferto. A chi e a cosa rende servizio rimanendo a Parigi? Con ciò che gli rimane, vivrà a Parigi una vita di privazioni mentre qui potrebbe vivere come un grande signore. Anche io potrei essere utile qui, cosa impossibile durante il suo soggiorno a Parigi. A Parigi, inoltre, è esposto a assistere a scene tristi; forse anche a recitarvi un ruolo. Lo lascio alle sue manie finché credo che la cosa non sia pericolosa per lui; ma se l’orizzonte si fosse oscurato, farei un salto da Milano a Parigi, impacchetterei il mio testardo cieco e lo porterei a casa mia. Per quanto riguarda te, amico mio, capisco le tue risoluzioni. Finché credi di poter rendere qualche servizio al tuo paese hai ragione a non pensare di andartene.

Ricorda però che c’è una circostanza in cui ci si perde senza alcun vantaggio per nessuno, e se dovesse presentarsi quel caso, vieni a unirti a me. So che riuscirai a vivere comodamente con la tua penna; salirai di nuovo in una soffitta, non ne dubito affatto; ma non vedrai con indifferenza il tuo paese compiere atti che ti sembreranno biasimevoli e che feriranno le tue idee di dovere, di convenienza, eccetera. Parlerai liberamente, apertamente, e se gli animi sono irritati li irriti ancora di più, a tuo rischio e pericolo. Questo è ciò che temo per te, e che ti supplico di evitare. Resta al tuo posto finché la tua presenza può essere utile al tuo paese; ma se il male prende il sopravvento, non affaticarti a cercare di contrastarlo, e non ti abbandonare ad esso. Avvicinati alla riva, metti piede a terra, e aspetta qualche istante il ritorno della calma. Che la tua riva sia l’Italia; che sia Milano, Locate, il focolare della tua amica. Passeremo ore tranquille e dolci, parlando del passato, del presente e del futuro, scambiando rimpianti, giudizi, speranze, e troveremo un accordo migliore di quanto non facessimo finora; perché i nostri vecchi argomenti di discussione sono scomparsi di fronte al giudizio dei fatti. La saggezza di Luigi Filippo, la stabilità della monarchia, l’insufficienza dei partiti e dell’opposizione, sono tesi bandite dal più grande dei dottori: il risultato. Mentre parleremmo, gli animi si calmeranno, e ti restituirei la tua libertà quando non correrà più alcun rischio altrove che da me, e per quanto riguarda le discussioni sulla politica, c’è un capitolo della tua professione di fede su cui non posso trovarmi d’accordo con te. Insisti sulle due camere. E perché? Cos’è una Camera dei Pari dove non c’è più aristocrazia? Ho contribuito fortemente a suscitare l’avversione dei miei concittadini contro la doppia legislatura e a Napoli l’abolizione dei Pari è diventata una condizione indispensabile per la durata di un ministero. Avrete solo una camera in Francia, ne sono certo. Qui c’è una grande disgrazia: l’aristocrazia e il Governo Provvisorio formano da soli tutto il partito Piemontese, mentre il popolo, la classe media e la gioventù sono repubblicani. Sono per il Piemonte, ma non posso sopportare di trovarmi con il partito Piemontese, e d’altra parte, i repubblicani (non la repubblica) hanno tutta la mia simpatia.

Addio, mio caro amico. Tienimi informato su ciò che ti riguarda, ti prego, e non lasciare mai che una nuvola si frapponga tra te e me. La tua amica devota,

Christine

Il fratello del povero Stelzi ha combattuto come un leone e ha perso la vita colpito da un proiettile nell’addome. Questa triste notizia ha dato un terribile colpo al mio malato, che tuttavia inizia a riprendersi.


Nota: L’originale in francese di questa lettera è stata trascritta circa cinquanta anni fa dalla professoressa francese Kniebiehler che me le ha gentilmente spedite molti anni fa.

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