La fuga verso Parigi

By 10 Ottobre 2025Ottobre 22nd, 2025Approfondimenti, Estratti, news
Un momento importante per Cristina fu la decisione di fuggire verso la Francia nel novembre del 1830.
Da quel momento inizia il suo esilio francese e il suo soggiorno stabile a Parigi, in cui rimarrà circa dieci anni.
Riporto qui di seguito il racconto di Aldobrandino Malvezzi, autore dei tre volumi biografici forse più importanti di tutti. Malvezzi era un parente acquisito della principessa, essendo figio di Costanza Trotti Bentivoglio, figlia della prima moglie di Ludovico Trotti, marito di Maria Belgiojoso , figlia di Cristina. Praticamente era un nipote acquisito.
Aveva avuto un accesso diretto alla nonna Maria ed a tutte le sue carte di famiglia. Documenti che poi si sono persi o in ogni caso non sono più attualmente reperibili.
E’ il racconto base da cui poi tutte le successive biografie hanno preso spunto.

Era la sera del 17 novembre e il cerchio visibilmente si restringeva attorno alla Belgiojoso; quei carabinieri sulla porta di casa che avrebbero potuto salire da un momento all’altro per ripetere la tragica scena dell’arresto del Confalonieri che tante volte la principessa aveva sentito descrivere in famiglia e che certo rammentò in quel momento, qualche nuovo allarme recatole forse dal fedele Borlasca che si trovava nel salotto con lei, le fecero prendere una fulminea decisione;
le era stato detto che se l’Austria fosse riuscita ad acciuffarla l’avrebbe rinchiusa in un convento a Milano: piuttosto la morte. La Belgiojoso non era donna da smarrirsi, né da svenire nei momenti supremi, bensì da raccogliere allora tutte le forze e da affrontare qualsiasi rischio con virile, impavido coraggio.
Chissà! Forse un rumore per le scale, mentre stava concertandosi col Borlasca sul da farsi, un incidente qualsiasi la fece subito balzare verso la porta del salotto rovesciando nell’atto concitato un tavolino sul quale si trovava un busto del Bey d’Algeri che si ruppe cadendo; e infilare le scale di servizio, poi una porta segreta di casa non sorvegliata; la seguiva il Borlasca. Nella via i fuggitivi furono pedinati da un uomo con l’ombrello che sospetta-vano potesse essere un poliziotto e che aumentò con la sua attitudine la loro angoscia.
«Ella sa in quale stato io l’accompagnai scrisse pochi giorni dopo quella sera il Borlasca alla Belgiojoso il mio stato era convulso, e adesso ancora se penso a quel maledetto uomo con l’ombrello che sempre ci teneva dietro, che rallentava il passo, o di tratto in tratto si fermava per non scostarsi da noi, mi viene la palpitazione: notte più angosciosa di quella non ho passato ancora dacché vivo ».
Andarono nella casa del Moyon e di li il Borlasca tornò nell’appartamento della Belgiojoso a prendere quel po’ di danaro che poté raccattare nel suo scrittoio e che, nella furia ed agitazione, seminò in parte per terra, e forse per prevenire la cameriera della principessa della fuga della padrona e ordinarle di raggiungerla con un qualsiasi fagotto d’indumenti.
Il danaro fu cambiato in oro dal Moyon e quella notte stessa la Belgiojoso e la cameriera lasciarono Genova in vettura alla volta di Nizza, scortate dal causidico Giuseppe Peddevilla. Al fedele Borlasca vedendoli partire si strinse il cuore. come egli stesso confessa scrivendo alla Belgiojoso:
«Altre volte quando io l’accompagnava, o alla carrozza, o per battello, o alla prima posta, mi confortavo nella lusinga di presto rivederla, questa volta invece il modo con cui ella è partita da Genova mi ha lasciato in una tristezza, in una agitazione dalla quale non mi sono rimesso. Io sentii più che mai il prezzo di una persona così cara ed interessante che mi si era affidata, io tenevo me stesso responsabile di qualunque sinistro accidente potesse arrivarle ».
Il 18, giorno dopo la fuga, il Borlasca sparse a Genova la voce che la Belgiojoso fosse andata a Quinto, come soleva, a e i domestici di sua casa lo ripetevano di buona fede a tutti quelli che andavano a farle visita ». La fuggitiva invece si avvicinava lentamente a Nizza ove giunse poco dopo il mezzodi del giorno 19, andando a smontare in casa del Tesoriere Borlasca, cugino del Peddevilla ed evidentemente congiunto, se non fratello del buon Barnaba.
Mentre la Belgiojoso si riposava del viaggio e pigliava qualche ristoro, il Peddevilla andò in cerca di alcuni suoi conoscenti e precisamente dell’avvocato Daideri « persona conosciuta per professare massime liberali » e che possedeva un « vistoso stabile » a St. Laurent sulla sponda francese del Varo, nonché di tale Paolo Erminio, fungente allora le veci d’Ispettore di dogana.
Alle ore quattro e mezzo, una vettura da nolo, procurata dall’Erminio, andò a casa del Tesoriere Borlasca a prendere la Belgiojoso e la cameriera e le condusse ad una solitaria osteria di campagna tenuta da un tal Vivaudo, situata alla « pointe de Carras », a mezz’ora circa dal Varo, nel punto nel quale la strada nazionale che conduceva in Francia si distaccava dal littorale per dirigersi entro terra.  Ivi la Belgiojoso aspettò qualche tempo poi, impazientita. ordinò al cocchiere di proseguire. ma, fatti pochi passi, s’incontrò col Daideri e l’Erminio che venivano a raggiungerla.
Cadeva la notte, fu licenziata la vettura e la Belgiojoso col Daideri rientrò nell’osteria del Vivaudo. Aspettavano qualcuno: il Daideri, preoccupato di non vederlo comparire. Faceva la spola fra la camera ove era ricoverata la principessa e la porta dell’osteria; ne usciva e scrutava lo stradale nel buio della notte. Cosi trascorse un’altra ora e mezza, lunga ed angosciosa.
Correvano intanto le poste le concitate lettere del principe di Metternich al Governatore di Milano, quelle di co-stui al Console d’Austria in Genova, quelle del Governo di Torino al Governatore di Genova, quelle di questi al Governatore di Nizza, per intimare ordini che. a qualunque costo, fosse impedita la fuga della signora principessa di Belgiojoso. In quel mentre questa, infreddolita e stanca, se ne stava nascosta in una squallida camera d’osteria, al lume di una candela, pensando che l’atto che stava per compiere avrebbe deciso irrevocabilmente la sua sorte, l’avrebbe privata delle sue ricchezze e degli agi della vita ai quali era stata assuefatta dalla nascita, l’avrebbe separata, forse per sempre, dai suoi cari, ai quali era tanto attaccata: nondimeno aspettava impaziente che, in compenso di tutto ciò cui ri-nunciava, le si schiudesse almeno il varco ad un paese di libertà.
Finalmente, alle ore 8 la Belgiojoso, la cameriera ed il Daideri, uscirono dall’osteria e scomparvero nel buio alla vista dell’oste. (1)
Non passarono il ponte del Varo, il che fu attestato con certezza dalle guardie di dogana che si trovavano di pianto-ne su di esso quella notte, bensì passarono il fiume a guado, a cavalluccio. ( Vedi articolo riguardo al guado “a cavalluccio”

NOTE

(1) Debbo alla cortesia del signor Beri di Nizza, erudito conoscitore di storia patria, le seguenti notizie intorno all’osteria nella quale si ricoverò la Belgiojoso e al suo proprietario. L’osteria, poscia trattoria e infine albergo del Vivaudo, sorgeva, nel 1830, in piena campagna nell’angolo formato dall’antica strada di Caucade e Sant’Agostino e la strada nazionale che conduceva al Varo. Lo stabile è stato solo recentemente ( Scritto  nel 1937. ndr) demolito dal Municipio di Nizza per facilitare la viabilità nell’attuale tratto di lungomare denominato la Californie, ove termina la Promenade des Anglais. L’oste, poscia albergatore, aveva nome Giulio Vivaudo, egli ebbe un figlio che fu sacerdote popolarissimo a Nizza, nonché una figlia che sposò un fuoruscito spagnuolo che aveva partecipato, quale capo di guerrillas carliste, alle guerre civili di Spa-gna e che, in compenso, ebbe da Don Carlos il titolo di marchese di Alpens.

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