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Lettere di un’esule – 34

By 5 Giugno 1853Marzo 19th, 2024esule, I suoi articoli

Lettere Di Un Esule N. XXXIV

Dervisci e i Loro Miracoli.

Corrispondenza del The N.Y. Tribune

Ciaq Mak Oglou, 5 Giugno 1853

Appena giunsi ad Angora, il cortile della casa che abitavo fu riempito dai malati di ogni genere, mentre coloro che non potevano venire mi mandavano i loro amici, con relazioni amplificate delle loro sofferenze, chiedendomi di guarirli, attraverso ambasciatori e messaggeri. A questi rifiutai di ascoltare, temendo di commettere qualche errore fatale. Ma uno di quei plenipotenziari insistette con tanto calore e richiese così tante volte che non privassi un uomo di novantanove anni delle sue ultime speranze, che decisi di non affidarmi al suo avvocato, ma di andare personalmente a visitarlo. Non era nient’altro che il capo mufti della città; il presidente di un celebre istituto di Dervisci, e molto generalmente riverito come una sorta di santo. Aveva vissuto quasi un secolo e aveva ancora diverse mogli, molti bambini piccoli, i suoi trentadue denti, una figura eretta e una costituzione forte. Ma tutte queste benedizioni non erano sufficienti a riconciliarlo con la perdita della vista, una pesante sfortuna che chiunque tranne un Mussulmano avrebbe sopportato tranquillamente a quell’età. Lui, tuttavia, non scacciò mai dal suo cuore il desiderio e la speranza di recuperarla. Secondo la mia conoscenza del carattere e del sentimento orientale, nulla è più lontano dalla verità dell’opinione generalmente ammessa dell’indifferenza con cui un buon Mussulmano si sottomette al destino. Non si ribellano alla necessità, è vero; ma quale uomo in pieno possesso delle sue facoltà lo farebbe mai? E l’uomo orientale raramente viene trascinato al di fuori di esse – un fatto che deriva dal suo temperamento e non dai suoi principi. Ma non ho mai visto speranze così radicate in casi disperati come tra i fedeli seguaci del Profeta. Per loro non sembra esserci impossibilità. Il tempo, l’esperienza, i contrasti- nulla ferma o scoraggia uno di loro. Ad ogni obiezione risponde sorridendo: “Chi lo sa? Allah è onnipotente” e interrompe la discussione. Tale era il caso del mio venerabile mufti. Molti medici lo avevano visitato; molti Dervisci avevano legato al suo collo tante versetti del Corano. Ammise che nessun buon risultato era venuto da tutte queste prescrizioni; ma il futuro non aveva nulla a che fare con il passato, e ancora si illudeva di poter vedere la sua nuova moglie e il suo ultimo figlio prima di morire. Fu per compiere questo miracolo che fui chiamato; e, stranamente da dire, che l’fiducia del vecchio fosse contagiosa, o perché scoprii davvero alcuni sintomi favorevoli nel suo caso, dopo un’accurata indagine, non disperai di un risultato felice. Quello che avevo preso inizialmente per una cataratta ora mi appariva come una diversa affezione degli organi visivi, non impossibile da curare. Lo dissi e consigliai un regime, che il vecchio promise di seguire fino alla fine. Poiché il mio soggiorno ad Angora non si estendeva a più di una quindicina di giorni, non so cosa sia successo al mio paziente né alla mia cura; ma un sensibile miglioramento si era verificato già dal primo giorno, quindi durante il mio soggiorno in città, ero letteralmente proprietario del cuore del Mufti e se avessi chiesto un pezzo del turbante del Profeta, non penso che avrebbe trovato il coraggio di rifiutarmi. Tutta la sua famiglia lo emulava in gentilezza e cortesia.

Sono stata invitata da loro a visitare le residenze estive dei Dervisci congregati, e ho accettato volentieri l’invito, approfittando dell’opportunità di familiarizzare con abitudini e luoghi raramente aperti ai Cristiani. Mi aspettavo di trovare qualcosa simile ai nostri conventi, ma sono rimasta molto delusa nel vedere un giardino quadrato diviso in molte parti, ognuna occupata al centro da un piccolo chiosco, aperto su tutti i lati e circondato da fiori e alberi da frutto. Il giardino stesso era racchiuso da una fila di case, di diverse dimensioni e strutture, appartenenti ai Dervisci e alle loro famiglie. Alcune di esse erano ancora abitate, le loro ombre estive, mentre altre le avevano lasciate per località più calde nel centro della città. Sono stata introdotta dal mio cicerone nell’harem di una delle prime categorie, dove ho trovato una numerosa società femminile, diverse delle cui membri appartenevano a un felice monaco, e un intero squadrone di bambini, di proprietà dello stesso. Mi sono state offerte docce di calze, guanti e altri capi lavorati a maglia, e la padrona di casa non si è accontentata finché non ho accettato di prendere in custodia un bellissimo gatto, della pura razza di Angora. Fin dai miei primi giorni, il nome di Angora è stato associato nella mia mente all’idea di gatti e capre; ma confesso nella mia vergognosa ignoranza, avevo confuso i due nomi di Angora e Angola e avevo sempre pensato che gli splendidi animali fossero originari dell’Africa piuttosto che dell’Asia. Non è passato molto tempo prima che scoprii il mio errore e tornai nella città asiatica, di cui avevo privato dell’onore, seppur innocente. Niente, infatti, è più bello di queste capre Angora, con la loro profusione di riccioli argentei che cadono a terra. Anche i gatti sono animali meravigliosamente carini; ma di questi ci sono esemplari nel mondo civilizzato, mentre nessuno aveva ancora provato a naturalizzare queste preziose capre in altri paesi. Molto è stato fatto – molte migliaia (manca l’indicazione di quale moneta. ndt) sono stati spesi per trasportare in Francia, Italia, Inghilterra e America i Merinos spagnoli, mentre le capre Angora, il cui pelo potrebbe essere scambiato per seta, sono ancora lasciate a pascolare sulle colline galate. C’è certamente qualcosa di particolare, sia nell’aria, nell’acqua o nel pascolo di quella provincia, stranamente favorevole alla morbidezza e alla finezza del pelo, dal momento che le capre Angora non si trovano oltre tre giorni di distanza dalla città. A Iconio, l’antica capitale dei Karamanidi, e nell’immensa zona nel mezzo della quale è situata, vantano una razza simile. Ma sebbene incomparabilmente superiori a ogni altra razza eccetto quella di Angora, sono molto al di sotto di quest’ultima. Per quanto riguarda i gatti, appartengono esclusivamente alla vecchia Angora; e i gatti di Iconio, che sono anche notevolmente belli, non possono essere affatto paragonati al vero tipo di Angora. Non è stato, quindi, un povero regalo quello che ho ricevuto dalla signora del Derviscio, e mi sono sentita grata, come avrei dovuto sentirmi. Ma il mio vecchio Muftì non era soddisfatto, né lo sarebbe stato, finché non avesse fatto qualcosa di straordinario per compiacermi. Alla fine ha pensato di darmi il piacere di assistere a una scena del potere dei Dervisci e alla vista di un miracolo. È uno spettacolo curioso nell’anno 1853, e tanto più quando viene eseguito da un gruppo di santi musulmani, in casa e per il divertimento di una donna cristiana. Molti sono stati certamente i cuori pii che si sono turbati sentendo parlare di tale condiscendenza; ma il Muftì stesso era troppo santo per essere rifiutato o persino biasimato; e il Derviscio anziano, con cinque dei suoi discepoli, è entrato un giorno dalla mia porta e mi ha informato che il Muftì li aveva mandati a mostrarmi la loro abilità. Li ho ricevuti con ogni segno di gravità e rispetto, pregandoli di non affrettarsi, ma di prendere del caffè e fumare, fino a quando il potere non fosse disceso su di loro, e si fossero assicurati di un buon risultato. Il caffè e le pipe sono stati accettate; ma per il resto, mi hanno assicurato che erano sempre pronti a dimostrare la loro fiducia nella forza dello spirito. Li ho esaminati attentamente mentre parlavano, per scoprire se fossero impostori o ingannati. Ma non sono riuscita a capire, e confesso che, se la cosa fosse stata possibile, avrei piuttosto pensato che fossero veri santi, effettivamente investiti di un potere soprannaturale.

Il capo era un uomo anziano, che assomigliava a ogni vecchio turco, perfettamente rispettabile. Una barba bianca, uno sguardo chiaro, placido e benigno, una voce morbida, un discorso lento; un modo tranquillo del tutto nel muoversi e conversare, in breve nulla che lo rivelasse né come ciarlatano né come fanatico. Questi vecchi musulmani appaiono in realtà lontani sia dall’uno che dall’altro. Sono troppo freddi per essere prede dell’entusiasmo e sembrano troppo onesti per giocare con la credulità degli altri. Tuttavia, devono essere l’uno o l’altro, e voi giudicherete; ma prima di procedere lasciatemi cercare di spiegare questa apparente contraddizione tra il musulmano esteriore e interiore. In una società dove l’inganno e le bugie sono considerati disonorevoli, l’uomo che ne fa un uso quotidiano si vergogna di sé stesso e gradualmente acquisisce quell’aspetto astuto e sospettoso, quella velocità affrettata e incerta che spesso tradisce l’impostore. Tra i musulmani, al contrario, le bugie, quando riuscite, sono molto apprezzate e anche quando scoperte, non portano con sé disonore. Nessun attore è vergognoso del suo spettacolo e gli applausi del pubblico lo ricompensano per i suoi talenti. Tale è il turco, tale è il pubblico turco. La vita è un teatro per loro, da cui la verità è necessariamente esclusa tranne nella sua imitazione. Questo è il motivo per cui vedete uomini dall’aspetto venerabile dotati di rispetto e simpatia pubblici, impegnati a praticare un perpetuo sistema di menzogne. Fate attenzione all’onestà turca, fate attenzione soprattutto alla veridicità turca.

Dopo che caffè e pipe furono discusse e messe da parte, i Dervisci procedettero a spogliarsi di gran parte dei loro indumenti, cioè delle loro scarpe e calze, giacche e camicie. Il capo prese da un servo una serie di strumenti da taglio e perforazione, spade, coltelli e pugnali, che distribuì ai suoi discepoli. Li ricevettero dopo aver fatto le prostrazioni e baciato la mano che stava per toccare gli strumenti consacrati. Poi cominciarono a cantare, a ballare, o più precisamente, a urlare terrificanti e a fare ogni sorta di giochi, fino a che non fossero coperti da una profusa sudorazione. Nel frattempo i loro lineamenti si distortero stranamente; gli occhi sporgenti dalle orbite, le narici dilatate e le bocche grottescamente deformate. Quando la meditazione richiesta raggiunse il suo apice, uno di loro, ancora urlante e scalciante, infilò il suo pugnale nella guancia con tale violenza che la punta uscì dall’altro lato, all’interno della sua bocca. In questa posizione, cominciò a girare il suo pugnale proprio come un falegname farebbe con una punta in un pezzo di legno; e poi, temendo senza dubbio che il sangue che sgorgava dalla sua ferita non fosse sufficiente a convincermi, si precipitò verso di me, afferrò la mia mano che non ebbi il coraggio o la presenza mentale di ritirare, e la spinse con forza nella sua bocca per farmi sentire la punta del pugnale conficcata in essa. La sentii e mi chinai in segno di assenso, una pantomima che lo soddisfece e lo tranquillizzò improvvisamente, perché cessò le sue contorsioni frenetiche, tirò fuori il pugnale insanguinato dal viso, si asciugò il sudore dalla fronte e si inginocchiò di fronte al suo capo, che, dopo aver messo il proprio dito nella propria bocca e tirato fuori come bagnato come doveva essere, strofinò il viso sanguinante del suo discepolo con questo nuovo elemento purificante e, completata l’operazione, lo prese per mano e lo consegnò alla mia ispezione. La ferita era perfettamente guarita e in luogo del foro aperto dal pugnale, una piccola linea rossa era appena visibile. Un altro Derviscio infilò il suo coltello nel braccio e fu curato come il precedente, con lo stesso risultato. Un terzo aveva ricevuto una grande spada, o meglio un scimitarra, nella forma di una mezzaluna, come le vecchie armi turche; dopo essersi eccitato allo stesso modo dei suoi compagni, mise il filo della spada contro lo stomaco e lo mosse avanti e indietro come facciamo noi con un coltello quando cerchiamo di tagliare un pezzo di carne duro. Come era da aspettarsi, la spada scomparve lentamente nella carne e una grande striscia di sangue indicava il progresso dello strumento. Non so quanto sarebbe andato avanti se non avessi dichiarato di essere pienamente soddisfatta e protestato contro qualsiasi ulteriore prosecuzione del gioco. Un segno del vecchio capo fermò il processo di sega e grazie a una maggiore dose del liquido curativo, anche questa ferita grave fu curata come le altre. Le esperienze più raffinate dovevano ancora essere eseguite, ma ne avevo avuto abbastanza e più che sufficiente, e, dopo aver fatto complimenti ai devoti e al loro capo, ringraziandoli e offrendo una quantità adeguata di grouch (piastre), li persuasi a accontentarsi delle imprese compiute. Per quanto riguarda le conclusioni, non ne trassi nessuna, ma con un’alzata di spalle e un cenno del capo, dissi: “Allah sa meglio!” Forse farete lo stesso; forse proclamerete i miei Dervisci impostori e me stessa una stupida creatura.

Non so se farei diversamente se mi raccontassero la storia; ma c’è una grande differenza tra sentire e vedere. Ho visto; e sebbene mi abbiano raccontato di molti impostori che fanno cose simili, e mi abbiano informato sulle modalità dei loro trucchi, come ad esempio un pezzo innocuo di piombo rapidamente sostituito con un’arma tagliente, un recipiente pieno di sangue nascosto nel coltello stesso o nella mano che lo tiene, e aperto nel momento preciso; anche se ho visto Bosco e M. Audinand e li ho considerati meraviglie che non potevano essere eguagliate; anche se non ho dimenticato nessuna di queste meraviglie, ancora quando ricordo le gesta dei Dervisci, non riesco a vedere nulla di sospetto in esse. Che cosa sono! È probabile che la saliva del vecchio abbia un potere miracoloso! O dovremmo ammettere che lo stato eccitato dei nervi del performer neutralizza l’effetto degli strumenti taglienti e penetranti? Cose del genere sono state già affermate, ma ancora trovo un po’ difficile riconoscere nei miei Dervisci, vero fanatismo o veri fanatici.

Christine Trivulzio di Belgiojoso.

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