Lettere di un Esule… N. XIX
Le nobili virtù tra i Turchi.
Corrispondenza del The N.Y. Tribune.
Dalla mia residenza in Asia Minore, 1 novembre 1851.
Se non avessi altro da dire sulle concezioni turche di felicità domestica se non ciò che riguarda la vita familiare delle classi superiori, avrei evitato l’argomento. Ma non c’è legge, religione, costume, stato sociale corrotto o corrotto abbastanza da soffocare o eradicare tutto ciò che è buono nel cuore umano, ed è sempre una vista piacevole e confortante vedere, nel profondo della depravazione selvaggia o artificiale, la somiglianza di quelle virtù che noi chiamiamo sante, e che siamo abituati a considerare come il risultato ultimo di una civiltà perfetta, mescolate con l’influenza dell’ispirazione divina. È la voce di Dio che insegna gli stessi santi precetti in contesti così diversi tra loro, e dona a coloro che li seguono la stessa ricompensa di pace interiore e soddisfazione invariabile. Ma quella voce parla tutte le lingue e si adatta a tutte le intelligenze e alle circostanze esterne che circondano gli uomini. È sufficiente per essa che il cuore a cui è diretto sia semplice e vero; e siate certi che, ovunque e in qualsiasi condizione tu trovi un tale cuore, le virtù che adornano i più nobili esemplari di umanità si troveranno in esso. Tali cuori li ho trovati in Turchia. Gli uomini a cui appartenevano sono stati allattati e allevati nella fede mussulmana, e considerano la donna come una serva e un giocattolo, un po’ migliore, forse, di un cane, ma molto inferiore a un cavallo. Prendere quanti più di questi giocattoli si potrebbe mantenere, disprezzare i loro sentimenti, disprezzare le loro affezioni, gettarli via quando sono consumati, questo è il credo mussulmano nei confronti della donna. Un giovane uomo sposa una donna anziana quando la donna anziana ha qualche fortuna, o quando ha ancora un residuo di bellezza. Pensa al peso che graverà su di lui qualche anno dopo? No. Non c’è niente del genere per un marito turco. Il giorno dopo il suo matrimonio, se sua moglie fosse solo ricca, e più tardi, se fosse ancora bella, il giovane marito la trascurerà completamente. Non la ingannerà; non cercherà di dissimulare il suo disgusto per i suoi vecchi legami e la sua propensione per quelli nuovi. Non presterà più attenzione alla moglie di quanto non farebbe se non fosse mai esistita; una nuova, una giovane prenderà il suo posto, e la povera vittima vivrà e morirà nella solitudine e nel disprezzo.
E il giovane uomo, se è ricco, non si accontenterà di aver unito il suo destino a quello di una donna della sua stessa età e delle sue inclinazioni; continuerà, prendendo una nuova ogni sei o sette anni, e quando egli stesso diventa vecchio, decrepito, infermo, uno spettacolo abietto, non arrossirà ancora di accogliere nel suo seno una giovane ragazza, una bambina, o più di una, se la morte non lo vieta. Eppure un tale uomo è capace di essere un uomo esemplare, un vero modello di virtù domestica, un esempio per tutti i mariti e tutti i padri.
Come mai, dunque, accade che nelle vicinanze di tali esempi di moralità mussulmana, si possa vedere un uomo di quarant’anni sano e vigoroso sposato dalla giovinezza a una debole, malaticcia valetudinaria[1], che non lo ha mai reso padre, e non lo farà mai, che richiede cure costanti e assidue; e offre in cambio solo una compagna triste e sgradevole? Come mai il marito non manda questo peso al signore senza nome, invece di sopportarlo?
Ma sbaglio. Lui non lo sopporta. Se lo sentisse come un peso, lo metterebbe da parte. Ma quale dovere lo ostacola? Qual timore del giudizio del mondo?
Ho fatto la domanda: “Come mai tu, un mussulmano, con le tue idee sul matrimonio, con il tuo ardente desiderio di figli, non hai scelto da tempo una moglie più sana e più gradevole?” “Amo questa”, continuò, “e l’ho amata fin dalla mia prima giovinezza. Mi ha reso felice quanto ha potuto; sarebbe giusto e leale chiederle di più? Certamente, potrei trovare un’altra moglie e diventare padre, cosa che sarebbe una felicità maggiore per me; ma cercando di meglio potrei trovare qualcosa di ancora peggiore. E, inoltre, avrei causato a questa un maggior dolore di tutti i suoi mali. Piangerebbe e sarebbe infelice. Meglio così, meglio così. Sono contento”, concluse allegramente.
E anch’io ero contenta, perché ero stanca del modo di considerare la questione della vita mondana. Mi rivolsi alla moglie e non potei fare a meno di dirle: “Dovresti amare molto tuo marito e sentirgli riconoscente per la sua fedeltà”. “E così faccio”, fu la sua risposta verbale, mentre il suo sguardo diceva molto di più.
Sì, dovrebbe sentirsi orgogliosa e grata, molto più di qualsiasi donna civilizzata al suo compagno civilizzato per la stessa considerazione. Perché il marito turco è perfettamente libero dai vincoli religiosi e libero dal giudizio pubblico, e se permette alle lacrime della moglie di metterlo ai ceppi, quelle lacrime traggono il loro potere solo da loro stesse.
Non dimenticherò mai una coppia di anziani che venne una mattina a consultarmi riguardo alla cecità del membro più debole. Il marito, un vecchio bel signore della pura razza, indossava l’antico abito asiatico, gli abiti fluttuanti, la barba lunga, il turbante bianco ampio, e sebbene i suoi occhi fossero neri e brillanti e la sua persona eretta e ancora vigorosa, trainava dopo di sé un asino trasandato, sul quale era montato il malato. La vecchia signora non solo era cieca, ma era anche storpiata, aveva perso la forma umana, non parlava ma mormorava incomprensibilmente, brontolava, ringhiava e soffriva. Quando fu tolta dalla sella, suo marito dovette portarla fino a quando non l’ebbe seduta a terra, poi sistemò il vestito, le disse qualcosa per confortarla e poi si rivolse a me, che ero stato uno spettatore silenzioso di tutto ciò. “Cosa ti aspetti che io faccia con tua moglie?” dissi io. Mi chiese di chiamare di nuovo il sole davanti ai suoi occhi, cosa impossibile per me. La vecchia signora era afflitta dalla cataratta. “Veni da lontano?” chiesi. “Tre giorni di viaggio”, fu la risposta. “Beh”, dissi io, “non ti manca il coraggio; vai ancora più avanti in una città dove c’è un chirurgo, e oserei dire che accetterà la cura.” “Beh, se riesco a persuaderla a venire, andrò. ” “Non sei tu il padrone?” chiesi. “Il padrone, sì, oserei dire che potrei esserlo, ma chi può essere così rude da costringerla a fare una cosa che le dispiace; lei è così infelice?” E si asciugò una vera lacrima. – “È molto tempo da quando le è capitata una sventura del genere?” chiesi. “Dieci anni.” “E sei solo tu a prendertene cura? Non hai figli?” “Ne abbiamo parecchi, ma sono tutti sposati, hanno famiglie e case proprie, quindi siamo soli; ma non importa, siamo contenti l’uno dell’altro; anche se soli, posso prendere cura di lei.” E lui la curò davvero, e non era una piacevole invalida da essere curata – sempre lamentandosi, sempre rimproverando, sempre fastidiosa; ma lui non sembrava accorgersene.