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Lettere di un’esule – 21

By 25 Febbraio 1852Marzo 9th, 2024esule, I suoi articoli

Lettere di un esule … n. XXI

Corrispondenza della Tribuna di New York

Cesarea[1], mercoledì 25 febbraio 1852

Forse state pensando che sia stata portata via da qualche tribù Curda e stia aspettando il riscatto che i miei amici stanno raccogliendo per me.
Il lungo silenzio richiede una spiegazione, che in parte troverete nella data di questa lettera. Sono in viaggio verso Gerusalemme, attraverso un lungo percorso che, che io sappia, non è mai stato attraversato da nessun viaggiatore europeo. Dal nord dell’Asia Minore, non lontano dal Mar Nero, sto lentamente scendendo attraverso le antiche province di Bitinia, Gallacia, Cappadocia e Cilicia, fino alle regioni meridionali della Siria e della Palestina. Ho appena compiuto un terzo del cammino, e questo terzo è stato, mi auguro, il più doloroso e noioso del viaggio.

Da Saffran Bolo ho attraversato le montagne curde, chiamate Bazendur Daghda (Monti Bazendur) e ho raggiunto la cittadina di Tcherkess[2], l’antica Antinopoli. Dell’antica città non rimane nulla, se non alcuni pilastri rotti e pietre disperse nella campagna circostante. La nuova città assomiglia a qualsiasi altro villaggio turco. Ben situata e pittoresca, che si vede molto bene a una certa distanza, si rimane sgradevolmente colpiti, entrando, alla vista delle misere e sporche casupole che la compongono. Per darvi un’idea dello stile architettonico di questa e di tutte le città turche, vi racconterò solo un piccolo incidente che mi è capitato il giorno stesso del mio arrivo a Tcherkess. Non avevo ancora scambiato i complimenti e i salamelecchi con il nostro ospitale amico, il vecchio Mufti del luogo, quando fui chiamato ad assistere al letto malato di un alto personaggio, quasi parente del Mufti. Benché fosse ormai notte e le strade fossero in condizioni deplorevoli, non potei che piegarmi alla necessità e partire per la mia missione medica, preceduto da un servitore con una lanterna, che teneva molto vicino al marciapiede per evitare che mettessi il piede in uno dei numerosi buchi che sbadigliavano da ogni parte.

(illeggibile..) continuavo  per lo stesso motivo gli occhi fissi (illeggibile) a terra, quando un forte colpo alla testa mi ricordò che anche questa parte di me richiedeva un po’ di attenzione. Alzando lo sguardo, vidi il tetto di una casa che pendeva davanti al mio naso. “Bene”, dissi, “ho visto abbastanza di Tcherkess, delle sue abitazioni e delle sue strade, dove è necessario prendersi cura dei piedi e della testa allo stesso tempo”. L’aspetto più piacevole del luogo fu la vista dei suoi due grandi khan[2], dopo che mi fui messa sicura in sella per la mia partenza.

(3 parole illeggibili) … spaventoso resoconto del (..) quando ( 6 parole illeggibili); e qui è il caso di osservare che i turchi in generale sono sempre pronti a spaventarvi da qualsiasi progetto di viaggio. C’è la neve, il ghiaccio, il fango; oppure c’è il caldo, il sole cocente e i venti del sud; ci sono i briganti, la mancanza di alloggi, la mancanza di ospitalità, e si è minacciati dalle più gravi calamità, tanto che si è portati a considerarli come il gruppo di persone più vile, ozioso, buono a nulla che si possa incontrare al mondo. Ma quando avrete superato tutte queste obiezioni e avrete espresso la vostra ferma volontà di procedere, non si parlerà più di questo argomento e vi verrà offerto ogni aiuto. Il momento della partenza, tuttavia, potrebbe far vacillare la fermezza del vostro proposito. Il luogo in cui vi trovate si presenta per contemplare il grande evento della vostra partenza verso la terra dei pericoli sconosciuti. Le guardie, o Zappeties, che vi accompagnano, vi precedono, potentemente armate, e quasi sepolte sotto cappotti e pellicce, come se stessero andando in Siberia. I cani ululano al vostro passaggio, i bambini urlano, le donne vi baciano le dita a voi e gli uomini vi raccomandano a Dio perché vi protegga. Tutto ciò indebolisce la vostra mente e sentite che state facendo qualcosa che nessuno di quelli che sono rimasti dietro di voi oserebbe fare. Ma una volta fuori dal luogo e nel deserto, lontano dalla portata degli uomini, i vostri accompagnatori Turchi diventano modelli di pazienza e di forza d’animo.

Nulla li stanca, né li opprime, né li scoraggia. La pioggia o la neve minacciano di soffocarvi o di annegarvi; chiedete con ansia un riparo; non ce n’è per alcune ore, rispondono freddamente, ma queste ore passeranno presto. Se il vostro cavallo scivola, ruzzola e cade, si rialzerà, dicono. E se non dovesse rialzarsi, beh, qualcuno dovrà camminare un po’, tutto qui.

Sono insensibili alla fatica, alla sofferenza, al freddo, al caldo, alla fame e al desiderio di dormire. Non si spogliano mai, non si sdraiano mai se non sulla nuda terra, con il loro mantello per coprirsi; non mangiano altro che il pane più grossolano e l’orzo bollito (quando si trova questa prelibatezza), non bevono altro che l’acqua fresca della sorgente, sono composti e soddisfatti come quando li avete visti per la prima volta ai loro focolari. Yeh Allah! è la frase incantata da cui traggono forza ed equanimità. In effetti, senza essere né turco, né fatalista, né ipocrita, il nome di Dio e l’espresso affidamento alla Sua volontà sono venuti molto spesso sulle mie labbra da quando ho lasciato il tranquillo rifugio della mia casa. Non può essere altrimenti, se si pensa ai molti pericoli che ci circondano e dai quali non abbiamo alcun mezzo per preservarci. E se il vento sollevasse questo oceano di neve e vi seppellisse sotto le sue onde in movimento?

E se la pioggia cadesse a torrenti e vi lasciasse in mezzo a una palude appena formata! E se il cavallo si rifiutasse di procedere e vi abbandonasse lontano da ogni abitazione? E se i briganti vi saccheggiano e vi lasciano senza nemmeno un mantello nelle aride pianure o sulle montagne ancora più aride!

E se gli abitanti del villaggio, ai quali avete chiesto riparo per la notte e provviste, vi chiudono le porte in faccia e vi rifiutano qualsiasi aiuto! E se le vostre forze vi abbandonassero, se la malattia si impossessasse di voi e vi stendesse sulla terra fredda e umida! Nessun denaro, nessun firman, nessuna protezione può esservi utile in questi casi, e dovete rivolgervi per aiuto all’Essere potente la cui mano tesa non è più lontana dal deserto che dalla dimora degli uomini. E quando si pensa ai molti incidenti che potrebbero capitare a un vagabondo sperduto in questi paesi barbari, alle molte porte aperte alla rovina e alla morte, ci si sente davvero tanto stupiti quanto gratificati per il numero esiguo di disgrazie che sono toccate in sorte ai viaggiatori orientali. È vero che coloro che si avventurano in questa parte del mondo sono ben disposti a soffrire molto senza pentirsi e ad affrontare il pericolo senza rabbrividire. È vero che trovano guide fedeli e cavalli eccellenti che li portano a superare tutte le difficoltà. Ma la vita in queste solitudini sembra solo una veste leggera, che può essere portata via in qualsiasi momento dal primo soffio di vento o dalla prima pioggia.

Tra i tanti esempi della rapidità con cui si passa dalla massima sicurezza e dalla situazione più confortevole a una condizione quasi disperata, ne racconterò solo uno.
Eravamo partiti da Tcherkess in tarda mattinata, con una distanza di sole sei ore, e procedevamo abbastanza piacevolmente attraverso la neve alta, sotto i raggi del sole asiatico. Avevamo fatto tre quarti del nostro percorso e cominciammo a guardare l’orizzonte lontano cercando di scoprire, nella foschia del tramonto, il villaggio turco in cui avremmo preso dimora per la notte.

La nostra guida ci precedeva piuttosto imbronciata e rispondeva a tutte le nostre domande sull’ora del nostro arrivo e sulla situazione del nostro alloggio con uno scuotimento della testa, che (…) non portava nulla di buono. Ma noi lo considerammo irascibile e lasciammo perdere. Stavamo salendo lentamente su una montagna. All’improvviso, voltandoci verso est, vedemmo una vasta pianura, terminata da una ripida salita, e nello stesso momento un vento gelido ci investì e ci fece tremare sotto i pelisses. Tuttavia, abbiamo proseguito incuranti di ciò che ci aspettava. Nell’attraversare l’ampia pianura, il vento, in costante aumento, ci raggelava al punto che non riuscivamo quasi a respirare o a tenere le briglie. Ma quando iniziammo l’ascesa, ognuno di noi sentì all’improvviso di avere davanti a sé una lotta per la vita o per la morte. A ogni passo i cavalli, che camminavano in uno stretto sentiero sull’orlo di un precipizio, si insabbiavano nella neve più in basso delle loro ginocchia. Il cavallo di uno dei nostri compagni, messo il piede fuori dal sentiero, affondò nella neve, cadde e seppellì il suo cavaliere sotto di lui (…).

Altri lo assistettero e uomini e animali (…) si rialzarono, ma il freddo si era talmente impossessato del nostro (…) compagno che in seguito si riprese con grande difficoltà a causa di uno spasmo nervoso provocato dall’incidente. Quanto a me, sentivo le mani che andavano velocemente e un dolore acuto che invadeva tutta la mia struttura. Proprio nel punto più pericoloso, qualche metro prima della vetta, incontrammo o meglio raggiungemmo un gruppo di Turchi, composto da tre uomini, una donna, alcune mucche, vitelli e asini. Gli esseri umani cercavano di convincere gli animali a proseguire; ma, non avendo usato argomentazioni perentorie, non avevano avuto successo e si erano fermati, sbarrando la strada e aspettando il piacere delle bestie. Questo fu l’ultimo colpo per noi, che avevamo fatto il possibile per raggiungere in fretta la cima di quelle terribili montagne. Gridammo ai turchi di proseguire, ma le nostre grida si persero nel rumore del vento e dei nostri cani, che credendoci perduti si misero intorno a noi, ululando e lamentandosi a gran voce. Confesso che per un momento ho pensato di essermi persa. Mi accertai rapidamente che mia figlia era vicino a me, poi avvolgendomi la testa in un mantello di Aleppo , seppellendo il viso nel mio grembo, raccomandai tutti noi al Signore del deserto e mi abbandonai alla guida del mio cavallo. Ben presto sentii il povero animale sforzarsi di aggirare gli ostacoli che gli sbarravano la strada.

Lasciava il sentiero, sprofondava nella neve e lottava per mantenersi sul fianco scosceso della montagna. Dopo alcuni momenti di terribile ansia, sentii che aveva ripreso il sentiero e che procedeva più facilmente; poi si trovò in piano; il sole tornò a splendere su di noi e in pochi istanti cominciammo a scendere dal versante opposto, mentre il vento gelido si trasformava in un vento mite. Mi tirai su, mi scoprii la testa, vidi mia figlia accanto a me e vidi una leggera colonna di fumo alzarsi a qualche metro di distanza. “Lì vi riscalderete”, disse la guida, indicando una piccola capanna situata in fondo alla prima discesa. Ne avevamo un gran bisogno. La vitalità delle mie mani era ancora una questione molto problematica; ma le mie sofferenze erano solo un’inezia rispetto a quelle del nostro infelice compagno, che ci raggiunse alla capanna, pallido e tremante, con le lacrime che gli uscivano dagli occhi, torcendosi le mani per la disperazione e dichiarandosi incapace di sopportare oltre. Il calore del luogo rese il dolore ancora più acuto, ma dopo qualche tempo si attenuò e cominciammo a considerarci di nuovo al sicuro.

Da quel giorno in poi non abbiamo avuto più nulla da recriminare agli elementi. Pur viaggiando costantemente nella neve e tra le montagne, in un paese disabitato, dove non si può trovare alcun riparo, non abbiamo avuto nulla da soffrire, se non la stanchezza.

Spero che il viaggio in Siria e Palestina sia piacevole, ma posso garantirvi che il viaggio in Asia Minore è molto diverso. Il paese da Angora a Cesarea[1], passando per la Gallacia e la Cappadocia, è il più arido, il più monotono e desolato del mondo. Si viaggia per giorni e giorni senza scoprire un solo albero, e il terreno intorno a noi si alza e si abbassa alternativamente con una regolarità che sconcerta l’immaginazione più fervida. Devono esserci dei pascoli da qualche parte, dato che gli abitanti del paese, i turcomanni, non hanno altra industria che l’allevamento di grandi greggi di pecore, mucche e cavalli; ma d’inverno, dove non si adotta l’irrigazione artificiale, l’erba si trasforma in paglia, e inoltre ci sono estese brughiere che devono essere verdi sia d’estate che d’inverno. Quando si è cavalcato tutto il giorno in uno scenario così malinconico, quando la fatica degli occhi e della mente non permette di sopportare la fatica del corpo, su quali conforti si può contare? Vi aspettate un gentile saluto orientale, una notte tranquilla e un’accoglienza ospitale? Niente di tutto questo. Ve lo assicuro. Arrivate in un villaggio miserabile, un insieme di capanne pietose, costruite con pietre e fango, perché il legno non si trova.

Gli abitanti di queste capanne corrono a nascondere i loro beni e le loro provviste, mentre i bambini e i cani vi urlano dietro, fissandovi e sorridendo, finché le Zappeties, (per metà guardie e per metà guide), con le loro potenti fruste disperdono la folla e costringono chi nasconde i tesori a riportarli fuori, ad aprire le porte delle loro capanne e a consegnarvi quelle meno scomode. Queste capanne non sono altro che una stalla, una parte della quale, essendo un po’ più elevata del resto e avendo il vantaggio di un camino, è predisposta per il vostro uso. Si ha la soddisfazione di dormire vicino ai propri cavalli, di sentirli per tutta la notte scalciare e mordersi a vicenda e di respirare un’atmosfera che può essere adatta ai polmoni deboli, ma non è piacevole. Il sorgere del mattino è un sollievo dopo una notte insonne, ma un sollievo che non restituisce le forze, e dopo una o due settimane di questa vita si sente la propria capacità di resistenza molto ridotta. Il momento del pagamento delle bollette, prima della partenza, non è il più rallegrante di tutti. L’intero villaggio vi chiede il bakshish. Uno vi ha portato la pipa, un altro vi ha tenuto il cavallo mentre smontavate; questo è il proprietario del vostro alloggio, che vi ha fornito pane, latte e uova. Ieri sera vi hanno consegnato a forza la loro casa e i loro cibi; stamattina vi assalgono con proteste d’amore e di stima, di servizi passati e di devozione presente. Voi pagate tutti e date a tutti, eppure nessuno di loro è soddisfatto. In effetti, le pietre sono talvolta mescolate con la benedizione di cui i Turchi non sono mai avari quando li si lascia.

In questo viaggio uggioso, come ci si sente euforici quando ci si avvicina a una vera città. Qualche ora prima la scena luttuosa diventa invitante e animata. Qui ci sono giardini, viti e alberi da frutto, casette abbastanza ordinate e persone rispettabili che vanno e vengono. Si esce finalmente dalla barbarie per entrare nella civiltà; una civiltà turca, in verità, ma pur sempre meglio di niente. Vi aspettate di trovare una casa pulita, un letto pulito, cibo e persone ragionevoli. Una parte delle vostre aspettative è infruttuosa, ma la maggior parte no. Eppure, dopo alcuni giorni di permanenza ad Angora, a Kis Their[4] o a Cesarea, desideriamo abbandonare queste mura e tornare nel paese aperto e deserto. C’è certamente qualcosa di particolarmente attraente nella natura selvaggia; ma ci si stanca comunque e, se si desidera tornarci, non è per il suo grande fascino, ma per la maggiore repulsività delle città. Una città turca è un luogo logorante in cui vivere, e una città turca è ancora peggio. Non c’è un vetro alla finestra e le stanze sono così buie che non si può né leggere né scrivere né fare altro che bere caffè e fumare la pipa.

I padroni di casa sono molto gentili a parole e nei modi, ma la loro gentilezza diventa spesso invadente e non c’è niente di più difficile che far capire loro che la stanza ceduta allo straniero non è più la loro. Aprono le porte, che non sono mai chiuse a chiave, e irrompono nel vostro appartamento a qualsiasi ora del giorno e della notte, fissandovi, osservandovi, come se la curiosità avesse un diritto illimitato di soddisfazione. Ed è così che dopo alcuni giorni trascorsi in una città turca, in una specie di cantina buia, senza alcun tipo di occupazione, senza un momento di libertà, si sospira per i campi aperti e i luoghi solitari dove c’è almeno libertà e solitudine.
Spero di potervi raccontare meglio l’ultima parte del mio viaggio. Non sono né di malumore né irascibile. Ero disposto a godere di molto e a sopportare altrettanto; ma non è colpa mia se il piacere non è arrivato e se i problemi sono stati più grandi del previsto. La verità non è sempre poetica, ma così com’è, dobbiamo sopportarla.

Christine Trivulzio di Belgioioso

[1] Attuale Kayseri, anticamente conosciuta come Cesarea di Cappadocia

[2] Çerkeş: Città del centro Anatolia.

[3] Caravanserraglio. Edificio costituito in genere da un muro che racchiude un ampio cortile e un porticato. Veniva utilizzato per la sosta delle carovane che attraversavano il deserto.

[4] Forse si riferisce a Kırşehir

 

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