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Lettere di un’esule – 18

By 1 Novembre 1851Marzo 9th, 2024esule, I suoi articoli

L’educazione dei bambini turchi.

Corrispondenza del The N.Y. Tribune

Asia Minore, Novembre 1851.

Mi illudevo di aver concluso con la vita mondana turca, ma poiché ho parlato del grande oggetto delle cure domestiche, i bambini, devo dire qualcosa sul tipo di educazione che ricevono in questo paese. Se c’è una classe di persone nel mondo umano completamente e perfettamente intollerabile, odiosa, disgustosa, spietata, sono i bambini turchi delle buone famiglie. Immagina solo un gruppo di piccoli selvaggi, vestiti con abiti larghi e fluttuanti come tanti membri dell’antico Senato romano, liberi da ogni controllo, dando ordini alle loro madri, lezioni alle loro nonne, schiaffi alle loro sorelle e calci ai servitori. Non hanno maestri, perché non si ritiene necessario che imparino qualcosa; né ricevono istruzione di alcun genere, dato che il padre è l’unica persona al mondo autorizzata a impartirla, e poiché abita nell’harem dove i bambini vivono solo di notte, cercano rifugio nel sonno da tutte le lezioni che potrebbe voler impartire loro. Ma l’harem è di per sé il luogo più noioso, e i bambini che respirano il suo aria malsana sarebbero presto divorati dal mal di fegato. Per prevenire una simile disgrazia, i padri affettuosi regalano ai loro figli maschi delle piccole schiave, ovviamente ragazze, con cui sono invitati a divertirsi. Ho visto i due figli di un famoso Pascià, uno di nove anni e l’altro di cinque, seguiti ovunque nell’harem da una dozzina di tali ragazze infelici, ancora più infelici dei loro compagni adulti, mentre l’anziano, un ragazzo molto intelligente, mi spiegava, a metà con parole e a metà con gesti, che erano sue e di suo fratello e potevano fare ciò che volevano con loro. Durante questa spiegazione il più giovane, una scimmietta molto carina e antipatica, illustrava le parole di suo fratello picchiando e pizzicando in modo crudele due o tre delle sue misere dipendenti, che erano evidentemente spaventate a lasciar scorrere le lacrime sulle loro guance. Ma pensate che essere picchiate, battute e pizzicate sia la parte peggiore della loro sorte? Se pensate così, siete completamente in errore, permettetemi di dirvelo.

Siamo così abituati a combinare nella stessa idea infanzia e innocenza, che troviamo piuttosto difficile privare anche i peggiori dei bambini del loro manto di neve. Ma in questo paese hanno cambiato tutto. Dal momento in cui nascono fino alla loro partenza dall’harem, ai bambini turchi è permesso andare ovunque nell’harem e a tutte le ore. Per loro non ci sono segreti. Tutti parlano e agiscono come se non fossero presenti, e possono ben farlo, dato che non sono mai assenti.

Ho vissuto per un po’ nell’harem di un Cadi[1]; ossia, ero lì in visita per alcuni giorni alla sua signora; e mia figlia, che ora ha dodici anni, era con me. Il nostro padrone di casa, un signore molto rispettabile, sposato solo una volta, aveva due figli di circa undici anni – uno molto carino e l’altro piuttosto tranquillo. Mi piacevano a prima vista, ma questa predisposizione fu presto distrutta. La prima sera del mio soggiorno nell’harem, quando mi ritirai con mia figlia nella mia stanza, cosa trovammo lì se non i due ragazzi. “Sono venuti a darci la buonanotte, e sicuramente stanno per andarsene”, dissi a mia figlia; “aspettiamo qualche momento.” E rimanemmo in piedi con il nostro candelabro (era davvero buffo) in una mano, indicando chiaramente: “vogliamo liberarci di voi, cari piccoli signori.” Ma stavo parlando una lingua sconosciuta, e il più audace dei due si sedette, deliberatamente, sull’ottomana, invitandoci a seguirlo e a sederci liberamente senza badare a loro. Ero molto stanca e assonnata, e anche mia figlia, e mi irritai. “Vogliamo andare a letto”, dissi piuttosto bruscamente. “Veramente ?”, dice il piccolo tormentatore; “e anche voi?” (rivolgendosi a mia figlia, che rispose affermativamente.) “Oh, che noia! Ma non importa; andate, andate a letto; c’è il vostro letto, non aspettate.” “Piccolo impertinente!” esclamai ad alta voce, “vogliamo che ve ne andiate e ci lasciate – avete capito ora?” Sembrava che avesse capito, ma non si mosse, quindi dopo aver ripetuto il mio invito due o tre volte, e sempre senza successo, non volendo arrivare alle mani finché potevo evitarlo, andai in cerca della loro madre e le chiesi di liberarmi dall’intrusione dei suoi marmocchi. Ma lei capì molto lentamente. “Non ti piacciono i bambini?” chiese; “ti danno fastidio? A loro piace tanto vederti!” Alla fine lo stesso Cadi pensò bene di intervenire. Aveva capito e aveva detto a sua moglie che i francesi consideravano i bambini come persone adulte. “È questo”, esclamai, e i bambini furono portati via di corsa. Nell’harem non c’è nessuna serratura, e per fortuna avevo preso la precauzione di mettere i miei bauli dietro la porta a mo’ di barricata. Più di una volta durante la notte ho sentito la porta e i bauli scossi da un piccolo braccio appartenente al mio piccolo anfitrione, che sperava di poter verificare se i francesi dormissero come gli Osmanlis[2].

Non vi annoierò con il racconto di tutti i miei guai durante la mia mai-da-dimenticare visita , ma vi comunicherò la sua conclusione. Mi fu offerto un bagno, uno di quei processi sporchi che ho descritto in una delle mie ultime lettere. Rifiutare sarebbe stato considerato incivile, quindi accettai e mi preparai per l’inevitabile soffocamento. Era già in corso da alcuni minuti, sudando da capo a piedi, scarsamente vestita, naturalmente. Avevo chiesto a una delle signore di farmi il favore di due spilli per il momento felice in cui mi sarebbe stato permesso di riprendere i miei abiti consueti. All’improvviso la porta della piccola cella si aprì, e cosa vidi se non i miei due piccoli mostri entrare nella stanza da bagno con facce sorridenti, ognuno di loro con un unico spillo tra le dita, a mo’ di passaporto. Persi ogni pazienza e tolleranza, e scattando in un parossismo di disperazione, mi precipitai verso la porta determinata a posare una mano violenta sulle loro guance rosee. Sembra che questo fosse scritto chiaramente sul mio volto, perché non appena lo videro fecero una smorfia molto pietosa e si ritirarono in fretta, così che non mi restò altro da fare che sbattere la porta, vestirmi in fretta e uscire subito dalla casa ospitale.

Molte famiglie turche mi avevano invitato a trascorrere qualche giorno con loro, ma lasciando l’harem del Cadi, dichiarai che non avrei mai più frequentato luoghi dove ci fossero ragazzi tra i bambini. In assenza di tali fastidi ho goduto di un po’ di quiete, ma era una tranquillità noiosa e spesso malinconica. Ho trovato delle bambine dove non c’erano ragazzi, e anche se non erano così fastidiose, erano per me una vista triste. Dove possiamo cercare l’innocenza, se i bambini non ne hanno più? E come possono conservarne, quando nemmeno le relazioni irregolari tra padrone e schiavi sono mantenute segrete o nascoste ai loro occhi? Molti e spaventosi disordini hanno avvelenato la pace di più di una famiglia, disordini che sorgono dalla completa mancanza di innocenza nei figli dei ricchi.

[1] Il Kadi o cadi era un funzionario dell’Impero ottomano. Il termine kadi si riferisce ai giudici che presiedono le questioni in conformità alla legge islamica, ma nell’Impero ottomano il kadi divenne anche una parte cruciale della gerarchia amministrativa dell’autorità centrale. ( Wikipedia )

[2] Derivato del nome di Osman (῾Othmān) : Ottomano, turco d’Anatolia

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